La nostra battaglia è di TUTTI è uno speakers’ corner dove raccogliere testimonianze di donne e uomini sul tema importante e urgente della disparità di genere all’interno dell’industria musicale e culturale.
GIORGIA BELLITTI | SCRITTRICE
“Per tanto tempo le donne sono state abituate a sentirsi incapaci e senza talento. La memoria delle loro opere non ha contato. Per illuminare uno spazio così fuori campo non basta aggiungere nomi, né la soluzione è cancellare il passato. Piuttosto servono altre parole e nuove inquadrature.”
Daniela Brogi, Lo spazio delle donne
Mi permetto di aggiungere che serve anche un po’ di luce, dobbiamo accendere i riflettori sulle donne e sulla loro capacità di esprimersi e connettersi. La qualità del lavoro c’è già, basta portarla fuori dall’ombra.
Il lavoro e l’arte non dovrebbero conoscere differenze di genere, dovrebbero suonare su un’unica frequenza: il merito. Eppure almeno una volta nella vita, le lavoratrici hanno avuto la netta percezione di sentirsi fuori luogo o hanno provato la sgradevole sensazione di essere considerare delle impostore.
Quando va bene, quando una donna sente di meritare appieno il successo che ha raggiunto, ha una zavorra morale dalla quale ancora fatica ad emanciparsi. La donna sente di meritare un traguardo solo se ha faticato il doppio di un uomo; è come se sentisse di meritare l’oro sui 100 metri, se ne ha corsi almeno 200. E questa patina va scrostata e tutte le donne devono sentirsi libere di gioire, libere di fallire, libere di raggiungere un obiettivo, libere di essere migliori di un uomo, ma soprattutto libere di non essere adatte. E questo sarà lo step decisivo, ogni donna deve rivendicare il proprio successo, e questo già lo si fa, va fatto e bisogna continuare a farlo, è la legge della giungla; ma soprattutto ogni donna deve apporre orgogliosamente il suo autografo su qualunque inciampo le dovesse capitare, e dovrà farlo con leggerezza, senza portarsi l’onta di aver fatto regredire un intero genere.
Noi facciamo squadra, nel bene e nel male, ma impariamo dagli uomini, frequentiamo di più la prima persona singolare; che dietro al “noi” spesso si nascondono innumerevoli tagliole travestite da solidarietà femminile, sentimento nobilissimo, ma non dev’essere la paura di esporsi a dettarlo, ma l’orgoglio di appartenere ad un gruppo.
Farò una sola volta la doverosa, ma spero superflua, precisazione che non mi sto rivolgendo a tutti gli uomini e non faccio di tutta l’erba un fascio, ma parlo di quella folta falange testosteronica, che ha delle difficoltà nell’accettare che anche le donne possano occupare certe poltrone, sgabelli o scalini, insomma che possano fare esattamente gli stessi mestieri degli uomini. Alcuni diventano consapevoli che le donne stanno avanzando e iniziano ad invadere gli spazi maschili. Io ho una domanda esistenziale che mi attanaglia: ma quando, e soprattutto, chi ha deciso che fossero maschili? Vorrei non fosse più un braccio di ferro ma un prendersi per mano, uno scambio fluido di competenze sulle quali il genere ha poca, scarsa, irrisoria influenza.
Vorrei armistizi intersezionali e non più lotte intestine, perché il fronte è ancora molto ampio, semplicemente nascosto.
Odio l’espressione “non si può più dire niente”. Lascio tra queste righe le mie riflessioni. Cari uomini, se percepite fastidiosa questa presunta limitazione, siete a buon punto per immedesimarvi nella nostra orticaria, con la quale combattiamo da secoli … e su allora, sopportate un pochino, che tanto siete dei machi… o no? Questa vittimistica locuzione nasconde un punto di osservazione errato e sessista. Non vi preoccupa il non poter parlare, vi disturba che l’altra parte del mondo quella demograficamente preponderante abbia voce.
Io vorrei proporre un altro approccio: ascoltiamoci, non zittiamoci.
Tanti sono gli uomini che ci comprendono, ma, ancora troppi, relegano questa solidarietà a luci spente, a sipario chiuso, ad ambiti privati… apprezzateci pubblicamente, non vergognatevi, siate volano…