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Ballate per Galline Vecchie #10 | Una vita con te. Anzi nove.

Una vita con te. Anzi nove.
di Elisa Genghini

Tu arrivi sempre quando ne ho bisogno, quando sento che è un momento difficile da superare o quando è ora di cambiare, quando è ora di lasciarmi indietro le cose e provare a tentare un’altra strada.

Arrivi tu. E’ il segnale che si può fare.

Mentre scrivo è il 23 settembre, domani sarà la nona volta che succederà, entrerò in una nuova dimensione.

Sei arrivata tu quando avevo bisogno di due parole per descrivere la mia tristezza dei primi anni di adolescenza, la prima volta che mi sono sentita un extraterrestre in gita di terza media.  Qualche anno più tardi, rivedendo i miei compagni di classe per una pizza del ventennale mi sono ritrovata a guardarle degli album fotografici in cui io ero lì con loro, ma non mi ricordo nulla “per forza, Genga, eri sempre da un’altra parte con la testa”.

Eri nelle mie orecchie quando quell’estate prendevo il quattro per andare a Viserba a trovare il mio primo fidanzato che lavorava nel bar di suo zio sul lungomare e non ho fatto altro che sentirmi sbagliata, ogni volta che ho obliterato il biglietto di ritorno verso casa, dopo aver passato tre ore seduta ad un tavolo vicino al sottoscala, in attesa che finisse il turno e che mi dicesse “e adesso che vai a casa cosa fai, vai a fare la cretina con le amiche?”. Quell’anno non avevo amiche, nemmeno una, non potevo.

Ci sei stata quando uscivamo fuori dalla scuola per protestare contro le bombe su Belgrado correndo su e giù per il corso, quell’eco di sirene quasi ci pareva di sentirlo, così vicino stavolta, cosi tangibile che avevo capito che la storia d’ora in avanti non l’avrei più studiata solamente sui libri, che quella volta non potevo essere da un’altra parte, c’ero, lì, in quel momento, avevo una coscienza, avevo paura, stavo diventando grande.

Cantavi nella mia testa quando con la mia amica Elisa si andava con il motorino fino al porto e un giorno ho visto il ragazzo più bello del mondo bersi una Fanta seduto in piazzale Boscovich e ho quest’immagine così chiara e nitida che conservo nella mia memoria ben archiviata alla voce  di “Sposo Metafisico per sempre”, e a cui ho dato la caccia per un estate finché, forse per sfinimento, mi aveva concesso un appuntamento salvo poi dirmi che non poteva esserci perché doveva prestare la macchina a suo zio. L’ho inseguito ancora per un po’, era uno stato di necessità.  Finché un giorno, passando con la bicicletta nel parco dietro casa l’ho visto limonare con una tipa magra con i capelli rosa. Ovvio, ho pensato, perché mai uno come lui sarebbe stato con una come me che andava in giro con il berretto del campeggio Torriana ‘95.

Ci sei stata quando ho lasciato Rimini per l’università mentre cercavo di orientarmi tra il buio e il discordine della prima casa da fuorisede, l’umidità dei muri, la coinquilina pazza e i turni per pulire il bagno, non finire i soldi prima di venerdì, mettere in frigo la piadina e il prosciutto in valigia, non perdersi tra le mille cose da fare a Bologna i primi anni degli aperitivi a buffet, le prime notti in cui nessuno avrebbe controllato i miei orari di rientro e nessuna madre che mi avrebbe rovesciato una tazza di caffè in gola mentre ero al etto per svegliarmi e non farmi fare tardi a lezione. La libertà aveva dimensioni troppo grandi per me, mi ci sono dimenata dentro come una mosca chiusa dentro una doppia finestra, finchè non avevo risposto ad un annuncio trovato da Tomassone in via Petroni. Cercavano una cantante.

Ci sei stata quando cantavi Eva contro Eva, proprio mentre cominciavo a lavorare, quando ho superato gli anni dell’università e cominciavo a fare il mestiere che avevo scelto prima di cominciare a scrivere canzoni. Eravamo quasi tutte ragazze e mi è dispiaciuto apprendere come sui posti di lavoro la competizione tra donne è spietata, sempre e comunque funzionale alla perpetrazione della misoginia, anche nel mio settore dove lo scopo del nostro lavoro dovrebbe essere quello del benessere delle fasce deboli.  L’ho sempre dovuto tenere in mente, ho sempre cercato di non caderci dentro, non sempre ho mantenuto l’equilibrio. C’è ancora troppa strada da fare, troppa.

Ci sei stata quando ero di ritorno da Vienna, dopo che una mattina, mentre ero in bagno, la fidanzata del mio fidanzato aveva suonato al campanello, reclamando la sua esistenza e decretando la mia inconsapevole clandestinità.  Adesso che ci penso il fatto che avesse una vaga somiglianza con Alex Batacchi capoufficio pacchi versione mitteleuropea,  poteva farmi destare un leggerissimo sospetto. Pensavo, dondolata dal vagone, a Vienna, che è ancora la una delle capitali che preferisco e che mentre salivo sul treno, quel giorno di dicembre, scendevano i primi fiocchi di neve, ti ho canticchiata senza farmi sentire: “non molto lontano da qui, nevica”.

E poi ci sei stata anche quando è tornato uno che era stato tanti anni in Cina. L’ho avevo aspettato tanto, ma è tornato quando avevo deciso che non avrei più aspettato niente e nessuno. Per lui tornare è un’abitudine.  Quel giorno mi aspettava, lui seduto su una panchina. Mi ha chiesto di me, sto bene, gli avevo risposto, sono felice. Abbiamo continuato a parlare, un’ accozzaglia di gesti, un saluto, addio amore, abbi cura di te.

E cosi ora ci sarai di nuovo. Ti ho ascoltato, una domenica al mare, mentre ero in macchina con mia figlia. Ti ho riconosciuta subito.  Sfidi come sempre le mode e le tendenze del momento, le tue chitarre, le sue sonorità, la tua voce non ti tradisce mai, sei sempre fedele a te stessa, sei sempre tu in mezzo a tante mie vite.  Domani ne comincia un’altra, lo so, sei il mio segnale. E so cosa devo fare.

Crediti: 

L’immagine di copertina è uno scatto di Carol Alabresee