Ani Di Franco – Little Plastic Castle
di Luca Guidi
Il modo più semplice di presentare Ani Di Franco è quello di raccontare la ragazza quindicenne che lascia casa e si mantiene suonando cover dei Beatles nei locali di New York, oppure la ventenne che fonda una propria etichetta discografica per pubblicare un disco e poi finisce per produrne una media di uno l’anno per 30 anni di carriera senza mai cedere alle lusinghe delle major.
Little Plastic Castle è il disco che ha consacrato al grande pubblico la cantautrice di Buffalo, il suo nono lavoro, uscito nel 1998.
La prima cosa che risulta evidente anche ad orecchio meno esperto è la grande capacità chitarristica di Ani, originale e dominante. Le chitarre acustiche sono suonate con vigore e precisione tecnica, ricche di sfumature, talvolta dolci talvolta nervose fino a risultare violente. La tecnica di Ani Di Franco prende le mosse dal folk, ma risulta nuova, a tratti inedita. Sarà proprio la chitarra acustica il filo conduttore di questo disco un po’ bizzarro.
Little Plastic Castle è anche il titolo della prima traccia, asciutta, quasi priva di reverberi, in cui la voce si staglia chiarissima mentre racconta uno stato di smarrimento urbano (“In a coffee shop in a city / Which is every coffee shop / In every city / On a day which is every day / I picked up a magazine / Which is every magazine / Read a story then I forgot it right away”). La sensazione di disorientamento viene incrementata dall’ingresso di strumenti a fiato impazziti che colorano il brano di un sapore vagamente “mariachi”.
Segue Fuel, brano a metà strada tra il folk della chitarra e il rap della metrica vocale. Le immagini si susseguono concitate portando l’ascoltatore a perdere il filo del discorso. Ani Di Franco sembra voler fare sul serio, il dubbio e lo smarrimento si dimostrano il tema centrale di questo lavoro.
Gravel è una canzone d’amore atipica, incentrata sulla dipendenza affettiva più che sul romanticismo (“And you were never a good lay / And you were never a good friend / But, oh, oh, what else can i say… / I adore you”). L’impostazione del brano è rock e up tempo, l’aspetto più interessante riguarda però la voce ed è l’irregolarità costante della metrica.
All’interno di questo disco pare una rarità imbattersi in un ritornello che si mantenga inalterato durante le sue ripetizioni.
Deep Dish è un episodio particolarmente divertente, di nuovo vagamente Hip hop, con una sonorità urban, un testo al limite del delirio che si appoggia sulla capacità di ridere di se stessi.
A chiudere l’ascolto di questo lavoro, Pulse nei suoi 14 minuti si srotola o si scioglie in una jam ipnotica dove è la tromba a portarci per mano, di nuovo dentro casa.
GUIDI ALL’ASCOLTO #7| Ani Di Franco – Little Plastic Castle
Crediti:
L’immagine di copertina è una illustrazione di Federico Russo