La nostra battaglia è di TUTTI è uno speakers’ corner dove raccogliere testimonianze di donne e uomini sul tema importante e urgente della disparità di genere all’interno dell’industria musicale e culturale.
ROSALBA CORTI | SCRITTRICE E GIORNALISTA
Cento.
40+60.
È sempre stato un problema di facciata, in ogni ambito lavorativo.
“DONNA” vuol dire novità, modernità, innovazione culturale, originalità, creatività, idee e visione ampia di vedute.
Però poi quando c’è da spartirsi il potere, un ruolo importante, una leadership, la figura femminile viene messa da parte, improvvisamente non se ne parla più e chissà come mai, la scelta cade sempre su un uomo.
Il problema è sicuramente culturale e antropologico, il valore della donna è riconosciuto solo a parole, poco nei fatti, ed è un peccato che chi ha in mano il potere, chi maneggia il denaro, chi fa i conti con la produttività, se ne dimentichi o la chiuda con un semplice “è meglio così”.
Meglio cosa?
Per qualcuno restiamo quelle “dolcemente complicate, sempre più emozionate e delicate” e un ruolo importante non ce lo danno.
In era preistorica, quando regnava la legge del più forte, era la forza muscolare dell’uomo rispetto alla donna a determinare la superiorità.
È nato così il dominio maschile.
Nel tempo, questo rapporto di forza si è evoluto. L’istruzione, le conoscenze, le competenze, hanno acquisito importanza sempre maggiore, le donne non sono solo in grado di promuovere la compassione e l’amore: sono capaci di assumere una leadership e divenire pioniere della rivoluzione delle rivoluzioni.
A parole.
Perché nei fatti, per qualcuno rimaniamo quelle “dolcemente complicate” con una gestione famigliare da portare avanti, con le mestruazioni, le vampate di calore, i figli da sfornare e crescere e i genitori anziani a cui badare, e i paletti alla nostra ascesa sociale, ce li piantano spesso anche in fronte.
E allora di che stiamo parlando?
Ci raccontiamo ancora la favoletta che esiste la parità di genere in ogni ambito, compreso quello economico?Non scherziamo.
Ho iniziato a lavorare in un giornale (che ora non esiste più), “a gratis”.
Scrivevo articoli sull’universo femminile per portare avanti una mia battaglia: la parità di genere.
Senza accorgermi che ero io stessa un ossimoro: lavoravo senza essere pagata in una redazione dove gli uomini percepivano uno stipendio e pure un contributo per la benzina.
Come se io andassi a lavorare a piedi.
Un bel giorno, dopo il compiacimento iniziale per “lavorare in un giornale”, mi sono svegliata e sono andata a reclamare i miei diritti.
Il direttore di allora, mi disse che “la mia era una collaborazione e non un lavoro, e che non potevano permettersi di assumere una donna”.
Levai i tacchi e me ne andai senza rispondere, ingoiando lacrime e umiliazione.
Son passati tanti anni, ma è una frase che mi è rimasta conficcata dentro, tra il cuore e l’anima: non potevano permettersi il mio lavoro, però potevano pubblicarlo, ricevere elogi e pubblicità retribuita.
In due parole “potevano sfruttarmi”.
Ora, a distanza di anni, saprei che parole dire e salterei in piedi a quella sedia indignandomi.
Direi che sì, sono una donna e non mi vanno giù un bel po’ di cose.
Per esempio, che come rappresentante dell’universo femminile, non mi va di non essere pagata o retribuita meno del 40% rispetto ad un uomo, quando va bene.
Che vuol dire?
Che devo impegnarmi il 40% in meno rispetto ad un mio collega maschio?
Che se faccio la cameriera in un ristorante posso servire un avventore e l’altro, lo salto?
Che posso svolgere il mio ruolo di commessa non sistemando il 40% del negozio e servendo solo il 60% dei clienti?
Che ambisco ad essere musicista, artista, attrice, senza dovermi sentir dire che “inserire una donna comporta più rischi” e quindi ho una band, uno spettacolo di soli uomini “per esigenze pratiche”?
E quindi?
Il talento al 100% va bene ma le possibilità di lavorare in quell’ambito e la retribuzione si riduce al 60%?
Che non posso ricoprire un ruolo importante in un’azienda, a parità di competenze, perché tutto il welfare è sulle mie spalle e potrei non essere al 100%?
Che significa?
Che i miei meriti e i miei servigi vengono retribuiti al 60% rispetto ad un uomo perché potrei gravare per il 40% sullo stato o sull’azienda?
Cose così.
Io ho quasi 60 anni, non vivrò abbastanza per veder la parità di genere.
Però c’è una nuova generazione di donne con una consapevolezza che sta ridisegnando la geografia del cammino femminile, e che sa portare avanti una voce comune matura, che non definirei “ribelle” ma semplicemente “giusta”.
Confido in quella generazione lì.
E negli uomini.
Tanti, illuminati, capaci.
Che riescono a vedere la somma di quello che siamo.
40+60=100
Rosalba Corti