They Say I’m Different
di Laura Gramuglia
Nell’ultimo intervento tra queste pagine scrivevo di quante artiste ricche di talento, pensatrici libere e audaci, ci avessero lasciato di recente. Tra queste, Elza Soares e Ronnie Spector, ricordate all’unanimità per il loro straordinario contributo alla storia della musica popolare e per i celebri mariti, celebri anche per la brutalità con la quale erano soliti relazionarsi alle rispettive compagne. A poche ore dalla pubblicazione di quell’articolo, è venuta a mancare Betty Davis e di nuovo, lo spettro di colui che per circa un anno è stato il consorte della musicista americana, si è ripreso la scena.
Tra il 1973 e il 1975 Betty Davis registra tre album intrisi di funk arrabbiato e voce poderosa. Il suo look è unico, eversivo, sul palco come sulle copertine dei dischi. Nel giro di tre anni esplode, e fa tutto da sola: sceglie i musicisti che la accompagnano in studio, compone e arrangia brani come Anti Love Song, Your Mama Wants Ya Back, They Say I’m Different ed è tragicamente in anticipo sui tempi. La sua è una visione creativa quanto personale del rock mischiato al funk. In una parola: fusion. Chi ha mai sentito canzoni del genere? Di certo non i discografici che continuano a dirle di cambiare atteggiamento, immagine, stile. Non le radio che si rifiutano di programmare pezzi così espliciti cantati da una donna afroamericana, fisicamente prestante, economicamente indipendente e femminista. È chiaro che al centro del suo universo di lotta e di piacere, i maschi sono al massimo dei comprimari.
Miles Davis è a un punto della sua carriera in cui immagina di avere visto e provato tutto, o quasi. Ha già preso parte alla rivoluzione del bebop e si può dire abbia inventato nuovi stili jazz come l’hard pop, il modal jazz, ma è soltanto grazie all’incontro con Betty che Miles si accorda al suo tempo per creare una miscela esplosiva di jazz e rock.
Nelle biografie che lo ritraggono, le pagine dedicate alla moglie si esauriscono in fretta. Riconoscono un’influenza, poco altro. Dopo il divorzio, a Betty, oltre al cognome non restò molto. Ogni contratto, ogni sessione in studio e i successivi dischi, le costarono lavoro, fatica. Quanto all’ex, non alzò mai un solo dito; al contrario, fu probabilmente l’antagonismo o almeno quello che Miles percepiva come tale, ad allontanarli. Le registrazioni effettuate durante il matrimonio restano ancora oggi inedite. Secondo Betty, suo marito non voleva veramente che portasse a termine un intero disco: “Era convinto che lo avrei lasciato se fossi diventata famosa”. E poi c’era quel problemino legato all’esuberanza della consorte, sempre così appariscente e sexy. Ancora, secondo Miles, altra grossa difficoltà di sua moglie, era quella di non credere molto nelle proprie capacità, nonostante l’indubbio talento, l’estro creativo. Quello che forse all’epoca Miles ignora è che non ci sono molte ragazze in giro che arrivano a scrivere, cantare e produrre i propri dischi intrisi di desiderio e trasgressione.
Betty Davis non è disposta a scendere a compromessi, sa di avere realizzato qualcosa di nuovo, importante. Ecco perché alla fine degli anni Settanta si perdono le tracce del suo talento.
L’establishment musicale le chiede di stravolgere la propria natura, conformarsi per rincorrere il successo, ma Betty non ci sta, e preferisce abbandonarlo quel mondo, anziché diventare la persona che non è.
Quando nel 2017 il suo profilo ricompare nel documentario Betty – They Say I’m Different è per assicurarsi che nessuno racconti come sono andate davvero le cose al posto suo. Betty Davis non è cambiata, fino alla fine, è rimasta fedele a se stessa.
L’immagine è nell’articolo è di Sara Paglia.
ROCKET GIRLS #17 | They Say I’m Different
La Playlist che accompagna l’articolo è una selezione di Laura “Rocket Girls“
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