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Rubrichelli #20 | DOLORES

DOLORES
di Giulia Pratelli

Sono trascorsi tanti mesi, decisamente troppi, dall’invasione delle truppe russe in Ucraina, dall’esplosione di un conflitto che riporta la guerra in Europa e ci costringe ad aprire gli occhi su questioni che abbiamo provato ad ignorare, che sono scivolate via tra le pagine intermedie di un quotidiano qualsiasi o tra le ultime notizie di un tg. 

Mi ricordo che pochi giorni dopo quel 24 febbraio una delle mie allieve mi raccontò il suo sconforto, il senso di smarrimento e la mancanza di punti di riferimento espressa in un “a scuola non ci dicono niente”. Mi chiese di parlarne, mettendomi in difficoltà perché non volevo condizionare il suo punto di vista con il mio o occupare un ruolo che non mi spettava. Le mie sono lezioni di canto, si può parlare di politica internazionale? Dovendo trovare una soluzione immediata ho provato a rovesciare il problema, a tornare sul mio territorio lasciando che fosse la musica a parlare e a riempire i nostri minuti settimanali a disposizione. Abbiamo cercato e ascoltato insieme alcune canzoni che parlano di guerra e soprattutto chiedono pace, facendo caso a come in tutte si possa riconoscere una radice comune, nonostante siano state scritte in momenti diversi e di fronte a ostilità lontane tra loro nel tempo e nello spazio. Le ho fatto ascoltare canzoni scritte prima che nascesse (alcune scritte prima che nascessi io stessa), ci siamo confrontate e soffermate particolarmente su un pezzo che ad ogni ascolto colpisce come la prima volta: Zombie, pubblicata nel 1994 dai Cramberries, quella stessa canzone che qualche tempo fa avevano intonato alcune ragazze arrestate in Russia per aver manifestato contro l’invasione in Ucraina. 

Ma che c’entra con la Russia quella canzone, scritta per lo sdegno di fronte alla morte di un bambino per l’attentato dell’IRA a Warrington nel 1993? Che c’entra l’Irlanda con l’Ucraina e che c’entra Dolores O’Riordan con delle ragazze che cantano il suo pezzo a distanza di quasi 30 anni dalla sua uscita e per ribellarsi a una guerra che nel ’93 non avremmo neanche potuto immaginare? 

Bob Dyan forse ci direbbe che la risposta soffia nel vento e io “mi permetto di aggiungere” (citando uno dei miei film preferiti) che il legame c’è, è forte e ci riguarda da vicino come esseri umani.

Zombie è una canzone potente, un grido di dolore reso ancor più lacerante dalla vocalità inconfondibile di O’Riordan, scomparsa prematuramente nel 2018 lasciandosi alle spalle un grande vuoto, che nessuna saprà colmare. Era un’artista inquieta e gigantesca, racchiusa nel corpo di una donna minuta, forse fragile, ma dotata di una voce forte, coraggiosa, dirompente, che portava con sé la tradizione dei canti irlandesi, della musica religiosa e della fede, fusa con la disillusione del grunge, l’urgenza del rock e la capacità di parlare a tutti tipica del pop. Al contempo eterea e carica di dolore, quella voce si rivela ancora necessaria perché continua a chiedere risposte di fronte alla violenza che spezza vite innocenti, di fronte a quelle “sante bombe” che esplodevano ieri a Warrington, a Sarajevo, a Berlino e oggi a Kiev, Mariupol, Kabul, nella striscia di Gaza e non solo. Non importa quale sia la mano che impugna l’arma, la città colpita, la lingua parlata, il risultato non cambia mai: è sempre la stessa storia, “the same old theme”, e c’è sempre un’altra “mother’s breaking” a cui strappano il cuore, la famiglia, la vita. Cantare vuol dire anche sentirsi vivi e forse proprio per questo che quella canzone riesce ad essere canto di protesta, preghiera, conforto anche a 28 anni di distanza dalla sua pubblicazione, anche a molti km da Warrington. 

Succede spesso, in realtà, che canzoni (o in generale opere d’arte)  si rivelino eterne: potremmo pensare a Se io fossi un angelo, Imagine, Teach your children, Sunday Bloody Sunday, La guerra di Piero, Il mio nemico… l’arte diventa senza tempo proprio perché sa ritrarre l’umanità nelle sue maggiori complessità, mettendone in risalto le meraviglie e scavando allo stesso tempo negli angoli più bui. Credo che i grandi artisti non abbiano la capacità di prevedere il futuro ma quella, ben più importante a mio avviso, di leggere l’animo umano e conoscerne le debolezze, gli inciampi, le testardaggini e quegli errori che tornano, purtroppo anche a distanza di molto tempo a dimostrare che dal passato impariamo poco. L’arte ci racconta e fa luce su ciò che a volte a parole non si spiega… a noi resta il compito di continuare a cantare, di non dimenticare, di non abituarci e, magari, di non continuare a sbagliare.

Mi sono dilungata stavolta, perdonatemi. Volevo condividere da tempo questa riflessione con voi e dedicare qualche parola a Dolores, alla sua voce indimenticabile e a quella sua canzone immortale, che ci regala ancora e sempre un attimo di bellezza di fronte alla reiterazione della vergogna e dello scempio. 

Su Spotify vi sta aspettando una playlist, che abbraccia lingue diverse, guarda a domani con speranza e lascia ancora spazio alla meraviglia. 

Vi scrivo presto, state bene.

RUBRICHELLI #20 | DOLORES

Crediti:

L’immagine di copertina è una illustrazione de La Tram [IG: @itslatram]